HAPPY DAYS – Save Yourself
Delle varie filiazioni del black metal, il depressive suicidal — per gli amici e d’ora in avanti DSBM — è una di quelle a cui sono maggiormente legato, sebbene con il tempo il mio palato musicale abbia iniziato a preferire altre pietanze. Nel corso di una carriera che ha già superato il decennio, gli statunitensi Happy Days sono stati in grado di ritagliarsi un posto di un certo rilievo nella nicchia occupata da questo sottogenere. Attualmente A. Morbid, anima intorno a cui ruota l’intero progetto, è in studio per la registrazione di un nuovo disco, dopo tre anni di silenzio seguiti alla pubblicazione di uno split con gli australiani Deadspace.
Occorre tuttavia fare un ulteriore salto indietro per incontrare il quinto e finora ultimo full length della band, Save Yourself, uscito per Talheim nel 2016. L’album appare fin da subito corposo, con dieci brani per un minutaggio complessivo che supera i cinquanta minuti, ma già dal primo ascolto risulta altrettanto poco convincente, soprattutto se paragonato ad uscite precedenti come l’ottimo Cause Of Death: Life o lo split condiviso con i georgiani Psychonaut 4 e i greci Dødsferd. Ora spiegherò il perché.
Musicalmente siamo di fronte a un DSBM piuttosto standard, con pezzi dalla struttura minimale contraddistinti dalla ripetizione ossessiva di riff, volta alla creazione di atmosfere il più negative e avvolgenti possibili. Fin qui nulla di male, anzi, è uno dei tratti che prediligo in questo genere: il vero problema sono le linee vocali. Ciò che secondo me ha sempre contraddistinto gli Happy Days nel mare magnum del depressive è il cantato di A. Morbid: un rantolo carico di disperazione, in grado di raggelare le ossa dell’ascoltatore. In Save Yourself questo manca completamente. Si è invece preferito optare per uno stile del tutto impersonale, che suona lontano e non è riuscito minimamente a coinvolgermi. Inoltre si deve poi aggiungere un lavoro di scrittura che non sempre è all’altezza delle uscite precedenti.
Ciò non significa però che l’album sia da scartare in toto. Sono comunque presenti diverse buone soluzioni e ben riuscite come il parlato in “Let Me In…” che — unito a una struttura minimale fatta di chitarra pulita, piano e batteria — rende il brano piuttosto interessante. Altrettanto positiva l’impressione che mi ha lasciato “Will We Make It?”, uno degli episodi meglio strutturati del disco, in cui la sezione ritmica appare particolarmente efficace nel supportare un buon riffing, oppure “Freedom Of Silence”, pezzo interamente strumentale che quindi non subisce l’influsso negativo del cantato.
Riascoltando più e più volte Save Yourself, ho avuto l’impressione che sia stato un tentativo di esplorare nuovi percorsi e di inserire qualcosa di fresco al suono del duo. Un tentativo che, pur restando apprezzabile, non sembra aver dato risultati degni di nota e che ha invece consegnato ai posteri un disco piuttosto mediocre. Non ci resta che aspettare il promo del nuovo lavoro per scoprire cosa ci riserva il futuro degli Happy Days.