INGRINA – Etter Lys
Prendete un po’ di francesi, arrangiateli in una formazione atipica — nello specifico tre chitarre, due batterie, un basso e una voce di non si sa bene chi — et voilà, il piatto è servito. E che piatto! Gli Ingrina, sestetto proveniente da qualche area sperduta nel Paese neocampione del mondo, ci vanno giù pesante in tutti i sensi: il loro primo lavoro sulla lunga distanza, Etter Lys, è un pachiderma dalle tinte nere come la pece miste a passaggi più atmosferici, il tutto amalgamato da una fluidità di fondo che permette ai tre quarti d’ora di musica di scorrere senza sosta e che si ricollega al racconto che accompagna il doppio vinile (a proposito, merci beaucoup).
L’iniziale “Black Hole”, dal sentore post-hardcore, funge da incipit per questo viaggio subacqueo in un mondo sconvolto dal continuo fluire delle acque scaturite da un lago denso e impenetrabile, acque che vanno a scombussolare la società e l’ordine delle cose, occupando tutto, dai fondali marini fino a spegnere le stelle del firmamento. Tutto diviene caos, instabilità, incertezza: entità positive quali la Speranza e l’Orgoglio nel voler resistere al cambiamento vengono sopraffatte, così come tutte le Vite si ritrovano intrecciate a doppio filo e iniziano a perdere presa persino sulle più basilari certezze, ritrovandosi tra le mani un presente inaccettabile e un futuro imperscrutabile, come narrato nelle tracce (o, per meglio dire, capitoli) “Coil” e “Resilience”. La dualità rappresentata dal flusso continuo della vita subacquea e dal totale sconvolgimento dello stato delle cose si riflette benissimo nelle composizioni, caratterizzate da momenti pacifici, quasi shoegaze, con basso pulsante e chitarre sognanti che sembrano suoni provenienti dagli abissi profondi, e da altri più pesanti, caotici, dall’inconfondibile impronta post-metal, ulteriormente accentuata dalle doppie percussioni che non si risparmiano dal dare continui scossoni al tutto.
Neanche a dirlo, il lieto fine in questa narrazione non c’è: il naturale epilogo vede le Vite annegare in balia della corrente (nella bellissima “Leeway”, peraltro di durata raddoppiata nell’edizione in vinile, merci beaucoup encore), sempre più alla deriva fino a perdere la sanità mentale, nella conclusiva “Surrender”, in preda a un flusso infinito di acqua che accerchia, ingloba e fonde corpi, coscienze e qualsiasi altra cosa vi sia di materiale o meno. «We are the waters, we are the floods, the fog and the frost» è l’urlo straziato di chi si è arreso, ormai inerme, al cataclisma naturale.