IRON FLESH – Summoning The Putrid
Il death metal vecchio stampo possiede un linguaggio ribaltato, nel quale i riferimenti a sensazioni e odori solitamente spiacevoli hanno connotati positivi per gli ascoltatori, anche se spesso si tratta di termini che poco hanno a che fare con la musica. Questa sinestesia è molto potente quando si ascoltano dischi come Summoning The Putrid, in quanto rievocano il sentore di marcio, nauseante e catacombale che questa musica sembra tanto adatta a descrivere sin dalla copertina. L’immagine scelta dagli Iron Flesh difatti tradisce da subito le intenzioni della band: verde, marrone, grigio e nero sono i colori che la fanno da padrone, mentre il soggetto è un non-morto deforme che si trova in un cimitero popolato da zombie. Per questo il titolo dell’album in basso a destra appare adatto: qui si tratta proprio di richiamare un immaginario a dir poco putrido.
Caso del destino vuole che le mie parole introduttive si rivelino perfette per descrivere gli Iron Flesh, che hanno fatto uscire il loro secondo album nel 2020 per la conterranea Great Dane Records, a distanza di un anno e mezzo dal precedente Forged Faith Bleeding. Sin dai primi minuti, la proposta del gruppo di Bordeaux appare semplice e affilata, preferendo di gran lunga le sonorità tradizionali dei Dismember alle esibizioni tecniche. I brani di apertura, “Servants Of Oblivion” e “Relinquished Flesh”, vanno dritti al punto ma risultano abbastanza curati in fase di arrangiamento da essere efficaci, inoltre presentano entrambi assoli che tradiscono la maestria dei chitarristi. Da lì in poi la scaletta si apre a un maggior numero di influenze, senza però rinnegare le sue radici: gli Iron Flesh insomma non dimenticano i Dismember ma variano la proposta, prima con la lugubre “Demonic Enn” che si avvicina al doom, poi con “Purify Through Blasphemy” il lato melodico degli ispiratori svedesi prende il sopravvento e il martellare del death viene messo in secondo piano, riscoprendo l’heavy metal degli anni Ottanta e dei Carcass ultimo periodo. Solo a questo punto abbiamo raccolto tutte le influenze che da lì in poi si alternano e compongono una scaletta che in fin dei conti regge in termini di coerenza.
Summoning The Putrid dimostra che si può convincere l’ascoltatore senza per questo rinunciare alla varietà, dando vita (questa è una parola che non vi dovrebbe venire in mente) a una formula che funziona anche dopo diversi passaggi sul lettore. D’altra parte l’album avrebbe potuto guadagnare in termini di potenza se si fosse optato per un suono più definito, sia per quanto riguarda le chitarre che la batteria. In conclusione, gli Iron Flesh sono una band di genere che fa il proprio sporco lavoro ma al contempo è lontana dall’essenzialità estrema. Summoning The Putrid è un lavoro valido, curato e privo di cadute di stile.