KATATONIA – City Burials
Sono quasi trent’anni che i Katatonia continuano a rielaborare in musica la grande e fredda distanza colma di buio e malessere che ci tiene lontani gli uni dagli altri, che ci separa dal vedere le nostre ambizioni giungere a compimento, e nessun cambio di formazione o pausa a breve/lungo termine ha impedito alla band di evolversi e di andare avanti nella propria missione. Per molti versi, quindi, si potrebbe dire che City Burials non sia altro che la testimonianza di buona salute di una realtà longeva, che si guarda intorno e vede ancora il mondo esclusivamente attraverso le infinite sfumature del nero, ma metterla così sarebbe riduttivo, oltre che veramente triste.
L’undicesimo album in studio dei Katatonia è un disco nostalgico, cupo e romantico, molto più legato a quei monoliti di Last Fair Deal Gone Down e The Great Cold Distance che al suo più vicino parente, The Fall Of Hearts, da cui si differenzia in primis per la durata (poco meno di 60 minuti, comprese le due tracce bonus, a fronte degli oltre 70 di TFOA), oltre che per lo stile delle sue composizioni. Passando dal black metal al depressive rock, dal gothic metal al prog, la creatura di Jonas Renkse e Anders Nyström ha cambiato più e più volte, negli anni, il suo tenebroso mantello sempre e solo per presentarsi ai nostri occhi diversa nell’aspetto e immutata nel profondo. È così che arriviamo a City Burials, un album che, attraversando le più restrittive definizioni di genere, assume le sembianze fumose ed evanescenti del cielo notturno di una metropoli, dandoci al contempo le stelle da ammirare nell’ora più tarda e il sottofondo più adatto a farlo.
Una sua analisi traccia per traccia, per quanto tremendamente esaustiva, finirebbe per minarne gravemente l’integrità. Perché estrapolare una “Lacquer”, una “Untrodden” o una “The Winter Of Our Passing” dalla totalità dell’album equivarrebbe a penalizzarla fortemente, visto che le singole tracce collaborano in modo armonioso alla creazione di una tessitura atmosferica bella quanto singolarmente intricata. «”Lacquer” […] ha spianato la strada alla gente senza dargli una vera idea di cosa si troverà davanti oltre quello», ci ha detto Niklas Sandin in sede di intervista, ed è effettivamente vero: un pezzo simile estrapolato come singolo copre perfettamente (e forse anche un po’ troppo) le tracce dei Nostri; impresa in cui è riuscito anche il suo successore, “Behind The Blood”, descritto da Jonas in un’altra intervista come un pezzo dei Judas Priest o degli Accept in una veste più katatonica.
Ascoltando invece tutti insieme gli undici brani del nuovo album dei Katatonia, viene naturale pensare come il quintetto scandinavo non abbia perso il suo tocco magico, neppure dopo tutti questi anni di attività. C’è effettivamente ancora da scapocciare in City Burials, sebbene i momenti più calmi e devoti alla costruzione di atmosfere deprimenti prevalgano. Un po’ come nel caso di Night Is The New Day o di Dead End Kings, è stata la sezione centrale della scaletta ad appassionarmi maggiormente; in questo senso, “Vanishers” (in cui sentiamo la voce delicata di Anni Bernhard dei Full Of Keys), “City Glaciers” e “Flicker” daranno senza dubbio del filo da torcere ai fan degli svedesi. C’è chi piangerà per la cupa bellezza celata dagli intricati arrangiamenti di queste canzoni e chi, invece, lo farà chiedendo indietro, un po’ come un disco rotto, i Katatonia dei tempi della prima demo, ma quel che è certo è che molte lacrime saranno versate da entrambe le parti.
Una produzione chiara, vivida e sempre controllata dà il tocco finale ai 50 minuti di ode alla malinconia che portano il nome di City Burials, assieme al contributo di Anders Eriksson (aka Frank Default), di cui abbiamo già ammirato il lavoro tastieristico tanto su Night Is The New Day quanto su Dead End Kings. Inserire il disco una sola volta nel proprio impianto non basterà a convincere, sarò sincero. Al primissimo impatto sono rimasto abbastanza turbato anche io, tanto dai singoli in sé quanto dal lavoro nel suo complesso; ma City Burials è un album complesso, denso, impossibile da digerire tutto in una sola volta. Eppure, trovata la giusta chiave di lettura, la solita, vecchia magia dei Katatonia prenderà il sopravvento.
«La strada per la tomba è dritta come una freccia» e i Katatonia ce la indicano sicuri di sé. La fine è segnata dal principio e, nel buio viaggio che è la vita, City Burials ci farà da sottofondo e ci accompagnerà coi suoi mid-tempo sincopati e le sue inattese scariche di doppia cassa per le stradine poco illuminate ai margini della periferia di Stoccolma, dove gli epitaffi al neon sono coperti dalla neve nel gelo dell’inverno della nostra dipartita. È innegabile: i re senza futuro sono tornati.
«The plans you make for the perpetual tomorrow
Will be collapsing still»
(“Rein”)