MESSA – Feast For Water
È quasi un caso mediatico quello rappresentato da Feast For Water, secondo eccellente lavoro dei Messa, astro nascente della scena doom italiana che già con il primo solido album (Belfry, datato 2016) aveva offerto un’ottima impressione, nonostante lo stile un po’ ancorato ai dettami del filone classico. Tutti impegnati su diversi fronti più o meno variegati, oggi i quattro veneti spiazzano e sorprendono, cambiando quasi del tutto veste, con una perla di rara bellezza in cui lo stile di partenza dei Nostri muta attraverso varie forme, toccando lidi sperimentali e dalle tinte jazz.
La carne al fuoco è tanta e, contrariamente a quanto accade spesso, è cotta alla perfezione. Non è dato sapere cosa sia successo in quel di Padova in questo biennio, fatto sta che lo scatto in avanti in termini di maturità e capacità compositive è nettissimo: il doom degli inizi assume una connotazione più votata al drone, ma non aspettatevi frequenze rimbombanti per tutta la durata del disco, perché Feast For Water è molto più di un connubio tra quei due generi, già di per sé affini. La traccia strumentale in apertura, “Naunet”, ci immerge letteralmente in un mondo subacqueo fatto di sonorità cangianti, dalle mille sfaccettature diverse, rese alla perfezione da una band solida e consapevole dei propri mezzi, capitanata dalla splendida voce di Sara: sacerdotessa capace di ipnotizzare, esaltare e anche di farsi da parte quando serve, valorizzando le composizioni e rendendo il suo contributo ancora più di impatto, con una prestazione che fa svettare la giovane cantante in un panorama che sta diventando più aperto verso le voci femminili, ma anche più saturo, con il fattore originalità che spesso viene un po’ a mancare.
L’Acqua, elemento simbolo del fluire costante delle cose, è un po’ il nesso tematico di un lavoro che tocca spiritualità, mitologia e religione in un continuo divenire, che vede strutture più pesanti e inquadrate alternarsi a sezioni più inclini al jazz, comunque tendente a tinte oscure. Pezzi come “Snakeskin Drape” o “The Seer”, con il loro incedere deciso e i chitarroni carichi di fuzz, sono indubbiamente momenti piuttosto alti e nei quali ci si aspettava di trovare la formazione a proprio agio, ma la classe sopraffina di questo disco si nota negli attimi più sommessi, quando la band cambia pelle: presenze inaspettate sono infatti il sax tenore, che dona un’atmosfera fumosa e noir a “Tulsi” e, soprattutto, Sua Maestà il Fender Rhodes. Il classico pianoforte elettrico, largamente usato dagli anni ’70 in poi, viene rispolverato e messo al servizio di pezzi che brillano di luce propria, come “Leah”, “She Knows” e “White Stains”. Sorprende inoltre la naturalezza con cui elementi del genere siano stati incastonati in questa opera, ma d’altronde le fonti di ispirazione sono tra le migliori, con mostri sacri come Herbie Hancock e Angelo Badalamenti (impossibile non ricordare la meravigliosa colonna sonora di “Twin Peaks”) citati tra le influenze.
Ecco, prendete tutto questo, inserite nel mix anche qualche improvviso blast beat e vari picchi di intensità sparsi qua e là, una conclusiva “Da Tariki Tariquat” che ci dona inedite sonorità orientaleggianti e avrete Feast For Water: un lavoro sopraffino, sporco e pulito all’occorrenza, che trascende i generi e che, a giudicare dai pareri unanimi che si vedono in giro, si piazzerà in molte delle classifiche di fine anno. Sicuramente in molte delle nostre, statene certi.