MOTÖRHEAD – Aftershock
Lemmy torna con il suo carico di bubboni, whiskey e distorsioni in questo Aftershock, ventunesima uscita di una band che non sembra stancarsi mai di calcare i palchi di mezzo mondo con un’energia e una carica incredibili per dei signori di sessant’anni.
Leggi sulla cover Motörhead e sai già cosa ti aspetta: il ritmo e l’animo della band inglese sono sempre gli stessi, familiari, suoni proposti dal 2004 con Inferno. Gli ingredienti infatti sono tutti al loro posto: abbiamo un brano iniziale spinto, il tanto anticipato “Heartbreaker”, il pezzo dal granitico riff blues (“Lost Woman Blues”), quello più rock’n’roll (“Crying Shame”) e quello intimista, quel “Dust And Glasses” che alterna un inizio puramente blues a una conclusione dal sapore sudista. Non mancano nemmeno i momenti di stanca, rappresentanti dalle poco ispirate “Death Machine”, “Knife” e “Keep Your Powder Dry”.
Proprio con questi ultimi due episodi emerge il difetto principale dell’album: la prolissità. Sostanzialmente, Aftershock è un album che avrebbe infatti beneficiato di una migliore selezione dei brani: una scaletta più corta avrebbe certamente giovato al nuovo parto di Lemmy e soci, che rischia invece di annoiare l’ascoltatore nell’ultima parte, nonostante l’ottima “Paralyzed” che conclude il tutto.
Ottime le performance di Phil “Wizzo” Campbell e di Mikkey Dee: il primo contribuisce alla causa con un riffing granitico e con degli assoli tra i migliori della sua carriera recente; il secondo invece dona al tutto la classica spinta che contraddistingue i Motörhead, quella che da anni porta gli ascoltatori di mezzo mondo a scapocciare al ritmo della band dello Snaggletooth in tutti i loro concerti.
I Motörhead, insomma, sono gli stessi di sempre: gli amanti di Lemmy troveranno pane per i loro denti, nonostante innegabili momenti poco ispirati sia nella scaletta che all’interno di alcuni brani. Per tutti gli altri, invece, il mio consiglio è di stare alla larga: i Motörhead sono una band che non vuole maturare, che resta fedele alle origini nonostante gli ormai numerosi decenni trascorsi. Non sarà questo Aftershock, insomma, a far cambiare idea a chi non sopporta più (o non ha mai sopportato) la proposta della storica band inglese.
Ciao, sono ColeBlack, l’autore della recensione. Se avete qualche domanda, commento o precisazione da fare, sono qui a vostra disposizione!