NEXION – Seven Oracles
L’EP omonimo del 2017 ce l’aveva fatto subodorare, quel puzzo di zolfo un po’ infernale ma anche solo semplicemente islandese tipico di chi, arrivando dalla terra del vulcanismo spinto, maneggia con perizia il black metal. I Nexion del 2020 confermano che quella prima ondata di black-death ortodosso ma comunque apocrifo — nel senso biblico del termine — non è stato un caso isolato, e con Seven Oracles uscito per la nostrana Avantgarde Music si candidano a tutti gli effetti tra gli autori di uno dei dischi dell’anno.
L’antefatto dietro questi quarantasei minuti e mezzo di male vede Jósúa “Josh” Rood prendere baracca e burattini da Poughkeepsie, New York, per stabilirsi in Islanda per studiare Storia delle Religioni e specializzarsi, per la precisione, nelle antiche religioni norrene; così, dopo l’esperienza Fenrismaw a base di death svedese del ramo di Stoccolma e paganesimo, ha pensato bene di prendere confidenza con la vivace movida di Reykjavík. Nel 2016 insieme a Óskar Rúnarsson dei Blood Feud, all’ex chitarrista dal vivo degli Svartidauði Jóhannes Smári Smárason, Kári Pálsson e al batterista dei velocissimi Úlfúdð Sigurður Jakobsson mette in piedi i Nexion. Nessuno di questi signori è un analfabeta del metallo, anzi, ciascuno ha un background bello solido sia come musicista che come ascoltatore, e tutti affondano le proprie radici nel black metal dalle tinte death.
Seven Oracles è intriso di riferimenti biblici e di esercizi filosofici sulla dignità di Dio che — spoiler — se c’è è nascosta bene, e si annida nel Libro delle Rivelazioni, da cui Rood pesca a piene mani già per il testo della massiccia “Revelation Of Unbeing”, che pure non manca di assumere le sembianze di un inno al male poco oltre la metà. Come detto, i Nexion sanno quello che fanno, e sono capaci di condensare tutte le sfumature di nero che conoscono anche in cinque minuti e mezzo scarsi di brano; un discorso che si applica anche a “Divine Wind And Holocaust Clouds”, coi suoi sentori mefitici e lo spettro di una verità che sta per svelarsi. Bisogna passare per il ritualismo imputridito di “Sanctum Amentiae” e la sua eucaristia a base di calici di piscio, ma anche per la lacerante “Utterance Of Broken Throats”, in cui Rood continua a dare prova di grandissima versatilità vocale, giostrando screaming e growl come un navigato cantore del demonio. Su “The Spirit Of Black Breath” c’è da respirare altra aria rovente e abissale, come se non bastasse l’agosto di fuoco che stiamo vivendo: doppia cassa micidiale e quando tiriamo il fiato ci ritroviamo in mezzo a un’altra liturgia pestilenziale, con cori da messa nera. “The Last Messiah” è anche l’ultimo di questi sette oracoli, che incarna la quintessenza della saggezza esoterica rivelataci dai Nexion; le chitarre fendono come rasoi, tagliando l’aria insalubre che ci opprime, dandoci l’illusione di essere usciti da un incubo.
Un’illusione, appunto, perché Seven Oracles rischia di monopolizzare le nostre orecchie e quindi la nostra percezione di cosa è bene e cosa è male, facendo pendere l’asticella pericolosamente sulla seconda opzione. Hic sunt mazzatae, ragazzi miei.