RANDALL DUNN – Beloved
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento due filosofi tedeschi hanno elaborato il concetto della Einfühlung (letteralmente «immedesimazione»). Theodor Lipps e Robert Vischer hanno sintetizzato così il sentimento d’identificazione che proviamo nei confronti delle forme e degli oggetti che ci piacciono; nel campo della psicologia il significato del termine si è allargato a descrivere la nostra capacità di porci nella situazione di un’altra persona, di comprenderne i sentimenti e, conseguentemente, di solidarizzare con lei. Randall Dunn convoglia queste capacità nei mestieri di produttore e ingegnere del suono, che non svolge fornendo un mero supporto tecnico ma partecipando attivamente al processo creativo: grazie alla sua spiccata sensibilità, infatti, riesce a comprendere e talvolta anticipare i bisogni espressivi degli artisti con cui collabora. Lo ha fatto con gli Earth, i Sunn O))), Marissa Nadler, i Wolves In The Throne Room, i Mamiffer, e più recentemente con Anna Von Hausswolff e il compianto Jóhann Jóhannssonn, per il quale ha curato la produzione della colonna sonora di Mandy, l’action horror firmato Panos Cosmatos con protagonista Nicolas Cage. I dischi su cui mette le mani Randall Dunn suonano genuini, trasudano sincerità, ma non per questo mancano di sfumature, anzi è proprio la ricchezza di dettagli — e non di sofisticazioni — a colpire: la sua attitudine mette in risalto nuance di cui gli stessi artisti non sono consapevoli, eppure sono lì, nell’aria che si respira in sala di registrazione.
Stanti queste premesse, non stupisce che Dunn sia arrivato così tardi al debutto da solista, nonostante anni di attività anche dietro agli strumenti — oltre che alla console — coi Master Musicians Of Bukkake e insieme a illustri compagni come Stephen O’Malley, Oren Ambarchi e Lesli Dalaba. L’empatia ha prevalso sul protagonismo, e pure se adesso abbiamo fra le mani Beloved non abbiamo l’impressione che sia semplicemente la nuova incarnazione di un comprimario che ha finalmente trovato la sua strada, ma la conferma di un patrimonio espressivo fin a oggi venuto a galla come la proverbiale punta dell’iceberg.
Nella stringatissima biografia su Bandcamp Dunn parla di imperfezioni e idiosincrasie come di dettagli da enfatizzare in fase di lavorazione, un metodo che persegue come produttore e che ha messo in pratica su Beloved, dando un senso di giustezza, di grazia, quasi, alle spigolosità e alle dissonanze, riuscendo a umanizzare sintetizzatori analogici e digitali, facendo sentire la sua voce pur non cantando. Un approccio che rimanda al concetto di musica concreta, e cioè al non pensare alla musica in forma astratta (notazione, armonia etc.) ma concretamente, focalizzandosi perciò sulle caratteristiche elementari del suono (dalla frequenza al timbro, passando per attacco e densità). Il pezzo d’apertura svela da subito pressoché tutte le carte che Dunn ha in mente di giocare: nei punti anfidromici le opposte onde di marea si annullano, vorticando in senso orario o antiorario a seconda dell’emisfero di riferimento, allo stesso modo il brano oscilla in un precario equilibrio fra ascese e discese di sintetizzatori. Dualismo che ritroviamo in “Lava Rock And Amber”, dove strumenti acustici dividono lo spazio con un Buchla, un Elka e un Minimoog, per un risultato che echeggia Deep Listening (New Albion Records, 1989) ma dai toni minacciosi. Lo spettro di Pauline Oliveros torna ad aggirarsi fra le note di “Theoria: Aleph”, nove minuti che riportano alla mente proprio una delle pioniere nell’uso dei droni ma con un pizzico di Vangelis; questa volta a distinguersi è la viola di Eyvind Kang, che come un pennello disegna con tinte fosche su una tela di modulazioni e cori sintetici. Su questa falsariga si muove anche “Virgo”, durante la quale contrabbasso e clarinetto squarciano un velo di rumore per aprire la strada all’organo a canne.
A fare da contraltare alla ricchezza — soprattutto in termini di arrangiamento — di questi brani ci sono gli unici pezzi cantati dell’album e un excursus che è un tripudio di sintetizzatori analogici. “Something About That Night” — per cui è stato realizzato anche un video — fa della semplicità la sua arma migliore: con una strumentazione più limitata emerge il gusto per le minuzie di Dunn che, come un abile cesellatore, intreccia poche linee di synth e un drum programming essenziale a un clarinetto in continuo inseguimento, sui quali poggia il timbro suadente di Frank Fisher (già voce degli ottimi Algiers), liquido come il mercurio. “Mexico City” potrebbe tranquillamente sembrare la Los Angeles distopica immaginata da Ridley Scott, bastano un ARP Quadra, un Minimoog e una cascata di effetti flanger per dar vita al momento più arioso e colorato del disco. La conclusione è affidata a una ballata elettronica cantata da un’ultima grande ospite, Zola Jesus, che presta la voce a una cosiddetta poesia dell’addio scritta dal maestro buddista Gesshū Sōko (1618-1696).
Beloved arriva dopo un periodo di cambiamenti e smarrimento, per Randall Dunn, e a dispetto di una fase di gestazione piuttosto lunga — è stato registrato a più riprese nell’arco di due anni — tradisce una certa urgenza comunicativa, qui distillata in quelli che sono a tutti gli effetti esercizi di meditazione su — e cito testualmente — «anxiety, paranoia, different shades of love, different realizations of mortality, how it can make you feel the stages of your life more deeply». Dunn diventa produttore di se stesso in tutto e per tutto, si guarda allo specchio e si interroga fino a far quadrare il cerchio della sua vita artistica in passato votata esclusivamente a mettere in luce le emozioni altrui, scrivendo un’opera matura, completa, amata.