REVENANT MARQUIS – Milk Teeth
Nella valle di lacrime costituita dalla scena raw black metal odierna, fatta di tanti emuli dei primi Darkthrone più attenti alle proprie ipertrofiche pagine Instagram e all’estetica che ai contenuti prodotti, per fortuna alcuni artisti emergono dalla massa e si distinguono portando avanti una proposta personale e a volte anche sperimentando senza seguire le tendenze, ma riuscendo a divenire una sorta di certezza.
Un ottimo esempio sono i Revenant Marquis, misterioso e prolifico progetto proveniente dal Galles che ci regala, dal 2018, una media di quasi due album all’anno, senza contare EP e split. Ciò che differenzia la one man band gallese dalle migliaia di gruppi che compongono questa scena a dir poco saturata è impalpabile ma facilmente comprensibile sin dal primo ascolto: i brani, infatti, riescono a trasportare in una dimensione spettrale e nebulosa, in cui sembra di essere circondati da fantasmi provenienti da un lontano passato, evocato anche dalle splendide copertine degli album ritraenti spesso giovani donne dei primi anni del Novecento.
Dopo l’ottimo Below The Landsker Line uscito nella prima metà del 2021, il nostro S (questo è lo pseudonimo dell’artista che si cela dietro al progetto) ha concluso l’anno con un album dal titolo impronunciabile (Cyflymiad O’r Holl Arferion Ocwlt) che si discostava dalle precedenti produzioni in quanto composto esclusivamente da brani ambient. Le danze del 2022 si sono invece aperte a giugno con un disco intitolato Milk Teeth che vede il ritorno del black metal e della foto d’archivio come copertina, ma soprattutto delle sonorità fangose a cui i Revenant Marquis ci avevano abituati, pur se riproposte in una formula leggermente diversa da quanto fatto in precedenza.
I brani di Milk Teeth, infatti, sono costituiti per la maggior parte da sezioni mid-tempo con arpeggi dissonanti e ripetitivi a cui fa da sottofondo una batteria piuttosto mite che raramente sfocia nel blast beat. I paesaggi sonori creati dalle chitarre a volte richiamano alcune sonorità post-rock e shoegaze e sulle armonie sognanti ed eteree si staglia, praticamente in sottofondo, una voce in screaming che sembra provenire dall’oltretomba. La produzione è sempre volutamente scarna e piena di riverberi, con frequenze basse piuttosto pronunciate che rendono il tutto ovattato come se fosse stato registrato dietro la porta di uno stanzino in cui gli strumenti sono suonati a tutto volume.
In conclusione, il mondo fatto di fantasmi e ossessioni passatiste dei Revenant Marquis si concretizza ancora una volta in un’opera singolare, fuori dal coro, che costituisce una naturale progressione del percorso intrapreso dalla one man band gallese, che pur sperimentando e allargando i propri orizzonti resta un nome importante per gli appassionati di raw black metal, nonché una garanzia di ottima qualità musicale.