RIVERSIDE – ID.Entity
Negli ultimi vent’anni il nome Riverside si è ritagliato una nicchia di tutto rispetto nel cuore e nelle orecchie degli appassionati del prog più raffinato. Da sempre dediti ad atmosfere cupe e depresse e altrettanto da sempre refrattari ai virtuosismi più autoreferenziali, questi quattro polacchi ci hanno onorati con sette album di livello altissimo e mai ripetitivi, mantenendo una stabilità assoluta di formazione rotta solo dalla morte del chitarrista Piotr Grudziński. Una mazzata del genere poteva segnare la fine della band e, invece, il risultato è stato quel Wasteland rilasciato come trio con Maciej Meller nelle vesti di ospite alla chitarra solista, forse l’apice compositivo della loro carriera sia per musiche che per concept e testi.
Dopo cinque anni punteggiati di raccolte e singoli vede la luce questo ID.Entity, con Meller arruolato a pieno titolo in formazione. Le aspettative erano alte e ben precise e, in pieno stile prog, i Riverside si impegnano… per fare altro. L’ascoltatore che si accosti all’album senza essere passato dai singoli apripista viene accolto da “Friend Or Foe?”. Al posto delle atmosfere à la Porcupine Tree in versione doom, qui ci troviamo catapultati nel prog-rock di gruppi come Yes o Genesis, con melodie accattivanti al limite del pop e in generale ben poca malinconia. Passato lo shock il brano è estremamente catchy e ben fatto e mostra un lato energico e quasi allegro della voce di Mariusz Duda che non si era praticamente mai sentito.
Da qui in poi i Riverside scatenano tutta la loro maestria passando in rassegna una notevole quantità di influenze gestite con una padronanza comune a pochi. “Landmine Blast” e “Big Tech Brother” echeggiano i lavori passati, con pregevoli linee di basso, da sempre trademark della band, che guidano brani cupi e ricchi di cambi di tempo, “ Post-Truth” risente della lezione dei Tool meno pesanti. La lunga suite “The Place Where I Belong” non sfigurerebbe nella discografia dei Marillion ma mostra il gruppo alle prese con rallentamenti quasi folk degni dei Jethro Tull. “I’m Done With You”, invece, ci porta invece alla scoperta del lato prettamente diretto e rock di Duda e compagni, e la conclusiva “Self-Aware” si concede digressioni quasi reggae.
Tanta varietà non spaventi il lettore. ID.Entity è un ascolto sì impegnativo ma perfino più facile della media considerando il genere, e se sorvoliamo qualche salto stilistico un po’ goffo l’album scorre senza intoppi. Un aspetto che risulta meno convincente invece è quello concettuale. Questo disco è una sorta di concept dedicato alla deriva distopica portata dalla tecnologia nella società moderna, con particolare enfasi dedicata al mondo dei social network: un tema impegnativo, ma anche ormai trito e ritrito dove è difficile portare qualcosa di veramente nuovo.
I Riverside in questo aspetto mantengono i loro standard: la padronanza della lingua inglese di Duda è indiscutibile e ogni canzone espone un punto di vista in modo estremamente diretto e senza troppi giri di parole. Su album come Rapid Eye Movement o il succitato Wasteland questo forniva una forza evocativa enorme a brani dedicati rispettivamente alla psicanalisi del sonno e alla disperazione dei sopravvisuti all’Apocalisse nucleare. Al servizio di temi più tangibili e immanenti il risultato è assai meno efficace, con un vago senso di “tema di maturità” che aleggia costantemente su frasi come “The future is in our hands, but first let’s unsubscribe the ones who make us hostile”. Normalmente non noterei nemmeno un problema simile visti i livelli delle liriche di tante realtà metal molto più blasonate, ma in questo caso è stato inevitabile.
Al di là dell’approccio testuale ID.Entity può rappresentare una mosca bianca nella carriera dei Riverside, qualora decidessero in futuro di tornare a lidi più melanconici, ma anche un punto di svolta interessante. Con buona pace degli oltranzisti di quanto fatto nei vent’anni precedenti, questo album potrebbe essere quello che Imaginations From The Other Side è stato per i Blind Guardian e lanciare i quattro polacchi verso una nuova forma espressiva più cangiante e meno catalogabile. L’ardua sentenza spetta come sempre ai posteri ma nel presente ci possiamo godere questi 53 minuti inusualmente solari.