SHARDANA – Milli Annos
La travagliata e spesso ignorata storia della Sardegna torna per la seconda volta in un solo anno (è di marzo la recensione di Araganu dei Nauthik) sulle nostre pagine, a questo giro per mano e per voce dei cagliaritani Shardana, compagine di lungo corso ma con una discografia ingiustamente esigua. Il periodo di riferimento non è più la fine del Settecento, coi suoi moti antifeudali, bensì il 215 a.C. che, nel bel mezzo della seconda guerra punica, vide i sardi nuragici guidati da Amsicora e dal figlio Josto combattere al fianco dei cartaginesi contro le forze romane. Milli Annos, uscito per la tedesca Rafchild, che nel roster vede anche i metalloni nostrani Wotan, è intriso di epicità precristiana fino al midollo e mette in luce una band rodata e matura.
Ma Milli Annos non è solo storia sarda, perché la storia non è un compartimento stagno, è invece una narrazione che investe il nostro presente a tutti i livelli. Gli Shardana decidono quindi di dividere il loro album in due parti: la seconda basata in maniera più precisa e definita sulle succitate battaglie anticoloniali ante-litteram, la prima meno connotata in termini storici ma più esistenziale e, per questo, globale — vengono citati Aton, dio egizio legato al culto del sole, e Tanit, dea del pantheon cartaginese e simbolo di fertilità.
Un sostrato narrativo globale perché globale è la storia dell’isola di Sardegna, che si riflette anche a livello musicale, sul quale la band non ha evidentemente smesso di lavorare dopo il pur buono No Cadena, No Presoni, No Spada, No Lei. La vena epica attraversa tutto il disco e alimenta ogni singola nota, ogni singolo riff scolpito da Daniele Manca e da Lorenzo Deiv Mariani, ma si ramifica senza paura in momenti ora thrash, ora death, ora folk. Cromatismi che si riflettono in tutto e per tutto anche sulla voce di Aaron Tolu, la cui prestazione sorprende più che in passato per duttilità e per la capacità di mantenere viva l’attenzione con picchi drammatici quasi teatrali.
Ad aprire Milli Annos ci pensa l’articolata “Echoes”, coi suoi sette minuti fatti di cambi di fronte, di cavalcate a briglia sciolta e di stacchi più riflessivi; mentre la rabbia uniforme e tiratissima di “Bastard Blood” racconta di una band che sa menare le mani senza perdere un grammo della sua epicità. Concetto ribadito da “A World With No Gods” e “S’arruina De Is Deus”, in cui gli echi più classici dialogano da pari con le mazzate thrash-death in un avvincente intreccio di chitarre; perché gli Shardana sembrano essere diventati una macchina da riff, merito anche di una sezione ritmica puntuale e tecnica il giusto. Dopo la sacrale “Tanit” si spalancano le porte dell’èpos sardo, in cui il quintetto cagliaritano dà fondo alle proprie capacità narrative: gli arpeggi di “Bellum Sardum” ci trascinano al fianco di Amsicora, leader dei sardi contro la crescente egemonia romana, deciso a combattere fino alla morte pur di ricacciare l’invasore in mare, è guerra. “Josto”, figlio di Amsicora, non è da meno in quanto a coraggio, e il brano martellante che porta il suo nome ci racconta la sua furia cieca, il suo rapporto viscerale col padre e la sua fine, segnata da un colpo di lancia. “Reus Pater” sposta l’asticella ancora più in là fino a toccare la tragedia, quella che vive Amsicora devastato dalla perdita del figlio, cosciente di aver agito d’impulso e in collera con gli dèi per non averlo sostenuto. La conclusione è in realtà un inizio, “Inghitzu” è infatti un urlo disperato per i sardi e per tutti, per ritrovare unità, per imparare dagli errori, per non lasciarci schiacciare dal presente, per non restare inermi di fronte allo schifo che ci circonda.
Il locale diventa globale, ancora una volta, e sottolinea la capacità degli Shardana di lavorare sul particolare per raggiungere concetti più vasti; un’attività che li vede eccellere in Milli Annos, disco onesto, complesso, maturo, che parla inglese e sardo in un flusso ininterrotto di epica che è uno specchio del nostro presente. Che bravi.