TĒTĒMA – Necroscape
Sembra già passata una vita, ma abbiamo parlato di Mike Patton e della sua brillante collaborazione con Jean-Claude Vannier solo lo scorso settembre, e lui tempo qualche mese torna a gamba tesa sulle nostre orecchie insieme al sound artist australiano Anthony Pateras, con cui condivide il progetto tētēma. È strano, però forse è anche un segno della capacità che hanno i dischi su cui mette mani, e soprattutto voce, di sedimentarsi nel nostro cervello. Necroscape casca doppiamente a fagiolo se pensiamo che la vena altamente distopica dei due questa volta esplora il tema dell’isolamento nella società del controllo, mentre sul primo Geocidal (2014) il focus era centrato sui Paesi post-coloniali.
La lucida follia dei tētēma si avvale ancora una volta di quella piovra umana che è Will Guthrie alla batteria e poi di una new entry di altissimo spessore, Erkki Velthein al violoncello. Far dialogare in modo produttivo quattro cervelli di questa portata non è semplice, vista e considerata la diversa estrazione che caratterizza ciascuno, eppure ci sono riusciti. Il risultato è un album capace di rivoltarti come un calzino, di prenderti a schiaffoni con la mano apertissima, e di inquietarti fino allo stremo nel giro di pochi minuti, senza per questo risultare brutto, pretenzioso o inascoltabile.
Intendiamoci, Necroscape non è una passeggiata di salute, ma nonostante la miriade di mondi musicali dai quali attinge è un disco sorprendentemente coeso. Il brano eponimo che dà il via agli psicodeliri di Patton e Pateras sembra uscito dalla mente di Lichens (che presta la sua opera agli Om ma è soprattutto un prolifico solista), e gioca tutto sulle voci e le stratificazioni per dare forma e sostanza al male che ci investe su “Cutlass Eye”, fatta invece di grind, droni massicci e coda doom metal. Può sembrare ma no, non sei in un film di Kubrick, e non stai nemmeno ascoltando un disco di Tom Waits, nel caso te lo domandi mentre vieni inghiottito dal groove micidiale di “Wait Till Mornin’”, salvo poi essere risputato davanti ai Melvins da cui attinge “Haunted On The Uptake”. In questo paesaggio di morte c’è spazio davvero per tutti, o almeno questa è l’illusione che ci vogliono raccontare; perfino per la musica concreta e per le sinistre incursioni del violoncello di Veltheim, che sbuca quando meno te lo aspetti in “Milked Out Million” e nella claustrofobica “Dead Still”: scanzonate e al tempo stesso terrificanti fiabe sullo straniamento nell’era di internet. Ci sono ulteriori assalti sonori portati avanti a suon di Buchla e farneticazioni di batteria su “Soliloquy” e “We’ll Talk Inside A Dream”, ma anche pezzi a cui non serve un’ossatura ritmica per farti finire in preda alla nausea.
La chiusura di Necroscape merita due parole a parte, perché “Funerale Di Un Contadino” (titolo originale “Funeral De Um Lavrador” firmato Chico Buarque, Melo Neto, con l’adattamento italiano di Sergio Bardotti) è l’allegoria più brillante e definitiva per spalancarci gli occhi sull’epoca che stiamo vivendo, fatta di reclusione e di auto-reclusione: «Questa fossa dove stai / Larga poche dita / È il più piccolo conto / Che hai pagato in vita. / Ha volume giusto / Né largo né fondo /È la parte che ti tocca / Del latifondo».
I tētēma, come preventivato, aprono il cranio dell’ascoltatore e ci cacano dentro, e lo fanno con una naturalezza e un’intelligenza talmente oltre che a noi sta benissimo così.