THE OCEAN COLLECTIVE – Holocene
Ne sono passate di ere geologiche — letteralmente — da quando i The Ocean hanno iniziato il loro excursus sui vari stadi che la Terra e l’evoluzione hanno attraversato fin dall’alba dei tempi. Quattro miliardi e mezzo di anni condensati in appena sedici: tanti dividono il seminale Precambrian del 2007 e il nuovo Holocene, naturale chiusura di un ampio cerchio che arriva fino ai giorni nostri, inframezzati da una serie di dischi con tematiche diverse e dai due magnifici Phanerozoic.
E proprio dal precedente Mesozoic / Cenozoic Robin Staps e soci riprendono le redini del discorso, non solo a livello geologico ma anche stilistico. La tendenza a parti più pacate e riflessive, unite all’uso dell’elettronica, pervade ancora di più Holocene, dando vita a un disco perfettamente coerente con ciò che sono i The Ocean, ma probabilmente anche all’opera più eterogenea del gruppo tedesco, rischiando di dividere i fan più affezionati all’approccio violento e granitico di un tempo.
Tre anni fa, chi scrive ci ha messo un po’ a metabolizzare Phanerozoic II, ma dopo una manciata di ascolti si è convinto dell’assoluto valore di questa fase più riflessiva e il discorso non cambia nel 2023. L’eleganza negli arrangiamenti e nella composizione, arricchita ormai come di consueto da fiati e archi sparsi qua e là, fa da contraltare ai testi, intrisi di una filosofia contemporanea che analizza l’uomo moderno e ciò che lo circonda: le sue fragilità e la continua ricerca del progresso, di un allungamento dell’aspettativa di vita in un mondo che va a rotoli, insieme all’assuefazione dalle pessime notizie che arrivano da ogni parte del globo e che si tende a ignorare finché la catastrofe non ci tocca da vicino.
Le strutture si fanno tendenzialmente più ripetitive, ma non mancano i saliscendi di intensità e le esplosioni post-metal a cui ci hanno abituati i The Ocean finora, come in “Atlantic”. Come dicevo prima, quindi, un disco sì variegato ma anche molto equilibrato: i chitarroni non sono assolutamente scomparsi, i riff storti neanche così come la sezione ritmica sempre sotto i riflettori, ma se due tra i momenti più belli di Holocene sono piuttosto agli antipodi come stile (“Subboreal” e la stratificata “Sea Of Reeds”) vuol dire che siamo di fronte all’ennesima conferma di una maturità compositiva invidiabile, custodita nelle quattro mani di Staps e Peter Voigtmann, alla quale si aggiunge un’ottima prova di Loïc Rossetti con un’ampia gamma di registri vocali. La traccia più particolare del disco si rivela invece “Unconformities”, che vede ospite la cantante svedese-norvegese Karin Park: una perla delicata e drammatica, che però perde un po’ il focus sul finale roboante che risulta un filo fuori contesto, nonostante sia una mattonata sulle gengive come poche con il suo incedere da samba post-hardcore e le urla di Rossetti che si perdono nel rumore generale.
Holocene è uno di quei dischi in cui è quasi impossibile trovare dei difetti oggettivi. Mi ricollego quindi al sempiterno de gustibus, ma per quanto mi riguarda questi ragazzi non sbagliano una nota dai tempi di Pelagial. Ora che la saga geologica dovrebbe essersi conclusa, non posso che attendere con grande attesa e curiosità il prossimo capitolo dei The Ocean.