TURRIS EBURNEA – Turris Eburnea
Summit, The Clearing Path, Cosmic Putrefaction e adesso Turris Eburnea, non si può certo dire che Gabriele Gramaglia sia stato fermo negli ultimi cinque anni. Dal post- al black e accasandosi (per ora) con il death metal, il musicista milanese ha infilato una serie di progetti e album uno più interessante dell’altro, sempre diversi tra loro e sempre in solitaria. La cosa che balza all’occhio di Turris Eburnea infatti è come nasca dall’unione di intenti tra Gramaglia e Nicholas McMaster, bassista tra gli altri di Krallice e Geryon. I musicisti si sono ritrovati un po’ di tempo libero per le mani durante il lockdown dello scorso inverno e hanno deciso di metterlo a frutto.
Già i due soli nomi coinvolti dovrebbero far drizzare le antenne a tutti gli appassionati di cose storte e dissonanti, e infatti abbiamo per le mani un coacervo di storture e dissonanze, di violenza e caos, di immagini surreali e di inquietudini. Eppure l’EP non è uno sterile esercizio a chi infila la partitura più difficile, perché è a suo modo onirico fin dal nome: il concetto di torre d’avorio ha origini antiche, nel corso dei secoli ha acquisito diversi significati, anche religiosi, e su di esso sono stati spesi fiumi di parole. Così il racconto di Gramaglia e McMaster è immaginifico e non lineare: “Unified Fields” racconta una serie di immagini incongruenti tra loro eppure legate da una sequenzialità che solo in sogno può esistere, mentre “Cotard Delusion” non narra della sindrome di Cotard, ma di un viaggio nel sottosuolo.
Il dipinto in copertina, opera del pittore pakistano Babar Moghal, restituisce perfettamente il senso di disagio trasmesso dall’EP, quello di un death metal sbilenco, quasi astratto, in cui la torre sospesa è l’unica superstite all’interno di uno scenario di distruzione. Qua e là spuntano le suggestioni dei Gorguts e dei migliori della scuola death metal dissonante (Ulcerate, Ad Nauseam, Artificial Brain e compagnia), ma anche gli stessi Krallice, e Turris Eburnea stranisce tanto quanto appaga. I due musicisti lavorano per forme e strutture indefinite, con riff violentissimi, basso spesso in primissimo piano e atmosfere cupe e magmatiche, piuttosto lontane dal bianco puro dell’avorio.
Le quattro tracce di Turris Eburnea non sono canzoni, sono blocchi di suono da cui Gramaglia e McMaster hanno estratto la loro torre, come dei veri scultori d’avorio. Una delle cose migliori sentite quest’anno.