URFAUST – Teufelsgeist
La carriera degli Urfaust, per quanto non longevissima, è caratterizzata da una certa prolissità (ventisei uscite discografiche in sedici anni) ma soprattutto da una tendenza all’evoluzione e alla sperimentazione in campo sonoro talmente graduale da risultare più che naturale, anche alle orecchie dell’ascoltatore più critico. Sin dal primo album Geist Ist Teufel, i Nostri hanno saputo definire un proprio stile fatto di voci sgraziate intonanti cantilene sbilenche, riff ipnotici, tappeto di batteria monotono ma trascinante e soprattutto di atmosfere spettrali e decadenti corroborate da misteriosi testi scritti in una sorta di mix tra tedesco e olandese, rigorosamente non pubblicati.
Nel corso del tempo il duo ha saputo innovare e arricchire la propria stramba formula, aggiungendovi cori (in Der Freiwillige Bettler) e rallentando sempre di più i tempi, fino a dilatarli in una sorta di dimensione onirica che raggiunge il suo climax in Empty Space Meditations, in cui le chitarre restano in secondo piano per far spazio a un tappeto di synth che contribuisce a portare l’ascoltatore verso una dimensione che trascende il terreno e il tangibile per elevarsi al cosmo e al sogno. Il discorso precedentemente intrapreso prosegue poi con The Constellatory Practice, che dilata ulteriormente i tempi e innalza di nuovo le chitarre al ruolo di protagoniste, presentandoci per la prima volta brani dai titoli in inglese.
Teufelsgeist è piombato nel 2020 come un fulmine a ciel sereno. Sin dal titolo, che è un chiaro rimaneggiamento di quello del primo album e che letteralmente significa lo spirito del diavolo, passando per la musica e per qualche ausilio non musicale (una bottiglia di gin contenuta nell’edizione limitata, andata a ruba dopo qualche ora dall’uscita), gli intenti del duo olandese sono chiari: stupire l’ascoltatore. Come farlo? Sostanzialmente, trascendendo la semplice esperienza sonora grazie a un’ulteriore evoluzione del sound e a un formato più didascalico in cui ognuna delle canzoni rappresenta uno stadio dell’intossicazione da alcol: dalla leggera ebbrezza fino al coma etilico, passando per gli stadi intermedi.
L’album inizia con “Offerschaal Der Astrologische Mengvormen” in cui i tappeti di synth propongono una serie di arpeggi in tonalità maggiore sui quali si innesta una partitura vocale spensierata e pulita, evocante l’ebbrezza, la leggerezza e la disinibizione che caratterizzano il primo stadio dell’intossicazione alcolica: la concentrazione di alcol nel sangue non supera gli 0,4 grammi/litro. La transizione con “Bloedsacrament Voor De Geestenzieners” è graduale: le litanie della prima traccia lasciano spazio a lente progressioni di accordi, questa volta in tonalità minore: una vera e propria marcia funebre accompagnata da una serie di ululati spettrali ricreati dai sintetizzatori. La voce ritorna a essere ciò a cui gli Urfaust ci avevano abituati: sgraziata, stonata e incredibilmente tormentata, la perfetta rappresentazione del secondo stadio, quello compreso tra 0,5 e 1,5 grammi/litro in cui l’euforia lascia gradualmente spazio alla disforia, alla tristezza e all’apatia, la capacità di giudizio e il linguaggio si compromettono e la percezione sensoriale inizia ad alterarsi.
L’intermezzo strumentale “Van Alcoholische Verbittering Naar Religieuze Cult” ci riporta alla dimensione onirica di Empty Space Meditation, qui privata della componente cosmica e intesa esclusivamente in chiave alcolica e tossicologica come rappresentazione dello stato soporoso e inerte al quale si va incontro eccedendo gli 1,5 grammi/litro: i comportamenti divengono inadatti al contesto sociale (violenti o estremamente passivi), camminare diventa praticamente impossibile e la nausea predomina sulle sensazioni positive. “De Filosofie Van Een Gedesillusioneerde”, imperniata su un giro di basso ipnotico, vede ancora di più sfumarsi i contorni della percezione sensoriale, che è ormai inesorabilmente compromessa: le voci si fanno sempre più rarefatte, difficilmente udibili, più che altro intuibili al di sotto del tappeto strumentale, fino a diventare veri e propri lamenti disperati sul finale: tra 3 e 4 grammi/litro si può iniziare a parlare di stato di incoscienza in cui i riflessi si sfumano fino a scomparire per dar spazio alle allucinazioni e a una perdita del contatto con la realtà.
Il disco si chiude con “Het Godverlaten Leprosarium”, una vera e propria traccia ambient in cui la batteria, ultimo legame con il mondo terreno, lascia spazio a una serie di effetti che ricordano le campane tubolari e che tentano invano di ritmare il brano, costituito da un’unica nota continua suonata da un pad. Una sorta di effetto sonoro misto a una voce spettrale richiama l’ultimo agghiacciante urlo, scaturito dalla bocca di chi supera i 4 grammi/litro per poi entrare in un coma profondo dal quale uscirà, passando per un rallentamento estremo del battito cardiaco e un’insufficienza respiratoria, solo attraverso la morte.
L’alcol, vero e proprio protagonista di Teufelsgeist, assolve probabilmente l’antica funzione di mezzo attraverso il quale ci si eleva a una condizione ultraterrena, come la mescalina contenuta nel peyote consumato dai sacerdoti Maya. Un’altra ipotesi è che l’intossicazione alcolica sia fine a se stessa: un mero rito di ricerca del piacere che, portato all’eccesso, può dare devastanti effetti collaterali, o ancora un disperato tentativo di dimenticare temporaneamente la realtà che ci circonda. Nessuno sa precisamente cosa gli Urfaust abbiano voluto rappresentare con questo disco, e va anche bene così: uno dei motivi per i quali il duo olandese affascina e attira schiere di appassionati è sicuramente questo velo di mistero dietro al quale si celano i concetti e i testi espressi nei loro album, mai rivelati esplicitamente ma aperti all’intuizione e all’interpretazione dell’ascoltatore.
In conclusione, Teufelsgeist è a mio modesto parere un album che permette agli Urfaust di ribadire la loro posizione di eremiti in un panorama musicale spesso saturo di band simili e in cui un filone succede all’altro seguendo i dettami delle mode. La band di Asten continua a evolversi per proprio conto, allontanandosi sempre di più dal black metal delle origini per approdare verso lidi drone, doom e ambient pur senza snaturarsi né vendersi, mostrando un’incredibile personalità che si esplicita tanto nella ricerca e nella proposta sonora quanto nell’immaginario lirico e contestuale. Chapeau.