WILT – Ruin
I Wilt giungono finalmente alla terza prova in studio, dopo l’EP di esordio del 2012 Wilt e il primo album Moving Monoliths, rilasciato ormai tre anni fa. Se la prima opera completa può essere stilisticamente ricondotta al doom, in Ruin la formazione di origine canadese cambia sensibilmente rotta, spostandosi verso un black metal atmosferico dalle tinte decisamente cupe. Il tema portante che sorregge l’intera composizione è il romanzo La Strada dello scrittore statunitense Cormac McCarthy che, attraverso il filtro del rapporto tra padre e figlio, descrive un mondo post-apocalittico desolato e inospitale. L’argomento si sposa perfettamente alle emozioni suscitate durante l’ascolto, dimostrandosi quindi una scelta indovinata.
Si parte con “Into The Unknown” che, dopo un’apertura lenta e sofferta, lascia spazio a una sezione in blast beat sorretta da un riff di chitarra di rara malinconia e tristezza, capace di catturare i vostri sensi come quando ci si trova a riflettere davanti a una finestra mentre la pioggia cade inesorabile. Nella successiva “We Read The World Wrong”, le radici doom emergono prepotenti, anche se nei suoi otto minuti non mancano parentesi riconducibili al black metal più atmosferico e avvilente. La voce straziata del cantante Jordan Dorge ben si amalgama all’umore del pezzo e ai riff della coppia di chitarristi Brett Goodchild e Jay Edwards.
Se il basso è relegato al ruolo di gregario, in “Strings Of A Lingering Heart” è la batteria di Myke Lewis a mettersi in mostra, riuscendo a enfatizzare le atmosfere, ora violente e aggressive, ora più lente a deprimenti, senza risultare mai ripetitivo; una perfetta summa delle due anime che muovono i Wilt del 2018. Segue la canzone più lunga in scaletta, “A Summons Has Come”, caratterizzata da un incedere lento e sofferto ma che, nonostante il minutaggio importante, non stanca all’ascolto e anzi sembra volerci cullare in un limbo sospeso e indefinito.
“Veil Of Gold” non esce dai solchi tracciati in precedenza e ci conduce inesorabilmente alla conclusiva “Requiem”. Brano strumentale nel quale flebili raggi di sole cominciano a insinuarsi tra le nuvole minacciose che ci hanno accompagnato durante il resto del viaggio. Una speranza solo accennata tuttavia percettibile, come quella che si respira nelle ultime pagine del romanzo dal quale Ruin trae ispirazione.
Per completare il quadro, la tedesca Vendetta Records ci propone la seconda produzione dei Wilt in un digipack tanto minimale nei contenuti quanto evocativo nelle illustrazioni. Un album curato e che sorprenderà, almeno in parte, chi aveva già apprezzato il precedente Moving Monoliths; agli altri non posso che consigliare di concedere almeno una possibilità a questo disco, che difficilmente vi lascerà con l’amaro in bocca.