WOLVES IN THE THRONE ROOM – Thrice Woven
I Lupi l’hanno fatto di nuovo. A tre anni dal tanto discusso Celestite, i fratelli Weaver (con l’aggiunta in pianta stabile di Kody Keyworth) tornano con un disco che ha tenuto sulle spine fino all’ultimo anche i seguaci più ottimisti dell’ormai trio di Olympia, Washington, che tuttavia si rivela essere tutt’altro che una delusione.
Qualcuno potrebbe dire, con una buona dose di ragione, che il controverso album del 2014 fosse un passo falso o tutt’al più una sperimentazione, prontamente accantonata in favore di un ritorno a più consoni territori Black Metal. E certamente è stato così, ma non del tutto: come rivelatoci dallo stesso Aaron, Celestite è stato un passaggio fondamentale nella genesi di questo Thrice Woven, dal punto di vista creativo ma non solo. Nondimeno, i Wolves In The Throne Room distolgono lo sguardo dalle sterminate foreste della Cascadia e guardano al Vecchio Mondo, più precisamente alla mitologia norrena, come già evidente dalla copertina: Týr, dio della giustizia e della verità, è qui ritratto alle prese con il lupo Fenrir, in un episodio cardine delle saghe scandinave. I due ospiti d’eccezione, Anna Von Hausswolff e Steve Von Till, si inseriscono perfettamente in questo contesto come due voci ed entità contrapposte: la prima, gelida e distante, a rappresentare il freddo oceano invernale; il secondo, profondo ed estremamente vicino, è invece il risveglio della Natura sul crepitìo di un fuoco. «Winter is dying, the sun is returning. Ice is receding, rivers are flowing»: è la saggezza degli antichi spiriti, di coloro che hanno calcato le nostre stesse terre in tempi distanti, ma che tutt’oggi insegnano a vivere in armonia con la Natura.
L’essenza della band si concretizza in un lavoro estremamente bilanciato, in cui i tanto agognati estremismi assenti da sei anni si amalgamano alla perfezione con le atmosfere, siano queste sotto forma di tappeti di sintetizzatori o di suoni naturali che rimandano ai vari elementi della Natura. Tutti i brani, eccezion fatta per “Mother Owl, Father Ocean” che funge da ponte verso la chiusura del disco, portano con sé questa dualità: dall’aggressività di “Born From The Serpent’s Eye” e “Angrboda” ai ritmi cadenzati e solenni di “The Old Ones Are With Us”, fino alla conclusiva “Fires Roar In The Palace Of The Moon”, il tutto è caratterizzato da una maestosità che solo a tratti sbiadisce, regalando un equilibrio difficilmente ripetibile a questi cinque brani lungi dall’essere tediosi, nonostante la durata comunque importante.
In conclusione, il sesto ululato dei Lupi è uno di quelli destinati a riecheggiare negli anni: non soltanto un ritorno in cui pochi ormai speravano, ma anche uno dei migliori capitoli della loro carriera.