10 album Death Metal da portare in spiaggia
Ci abbiamo provato, ma non ce l’abbiamo fatta: l’estate è arrivata e noi non siamo riusciti ad arginarla. Come ogni anno, ci ritroviamo preda dei 40 gradi all’ombra, dell’afa e dei tormentoni latini. Cercando di far buon viso a cattivo gioco, abbiamo pensato che, se proprio dobbiamo subire un’estate al mare, tanto vale farlo con la giusta colonna sonora.
Da queste parti abbiamo detto no alla pelle vellutata e all’harmonizer per sdoppiare la voce, ma non rinunciamo al piacere delle canzoni da spiaggia. Dopo aver frugato nei nostri archivi del Male, abbiamo compilato un rapido vademecum di album che chiunque dovrebbe portarsi sotto l’ombrellone, che fanno di sabbia e onde il proprio fulcro. Quando si è trattato di limitare l’ambito di indagine a un genere in particolare, la scelta è ricaduta sul death metal: tra tutte le varie espressioni metalliche è quella meno immediatamente ricollegabile alle chiare, fresche et dolci acque. Questa playlist vuole essere la confutazione ultima di questa tesi.
I dischi che seguono arrivano da luoghi geografici e momenti diversi e sono una panoramica piuttosto fedele di molte delle correnti sviluppatesi nell’arco di tre decenni. Vanno presi come un percorso, un viaggio che inizia sulla spiaggia, ma che via via si allontana sempre più dalla costa e che si conclude… nell’unico luogo dove è giusto che finisca una giornata al mare.
GORGUTS – COLORED SANDS (2013)
Si inizia sempre per gradi, partendo dalle cose semplici, quelle assimilabili facilmente. In spiaggia potete iniziare a scaldarvi con il (non più così) recente lavoro dei Gorguts, un concentrato di tecnica e idee come se ne sentono sempre troppo pochi.
Dal tetto del mondo in apertura, il Tibet, Luc Lemay e soci si fanno largo fra oceani e sabbie, andando a riprendere quel misticismo esotico che li accompagna fin dai tempi di Obscura, mettendo insieme nove canzoni allo stesso tempo complesse e fruibili. Poco importa che in realtà gli oceani siano quelli dello spirito e le sabbie siano quelle con cui i monaci tibetani costruiscono i loro mandala, anzi, tanto meglio: sarà il Buddhismo a insegnarci come resistere a queste temperature sahariane, sarà la meditazione a permetterci di arrivare in fondo a questo viaggio. Per cominciare, già arrivare alla fine di questo album è un traguardo, vista la mole di cose che i Gorguts hanno da offrire. Colored Sands è l’ulteriore capolavoro di una band inimitabile.
HATE ETERNAL – UPON DESOLATE SANDS (2018)
Da sempre un bonus valido per tutte le stagioni, gli Hate Eternal, eppure Upon Desolate Sands ha quel qualcosa in più, un quid pluris che porta la creatura di Erik Rutan sulla bocca di ogni fan del death metal che si rispetti. Il trio di Tampa non ha mai fatto dell’innovazione il proprio cavallo di battaglia, limitandosi sempre a fare solo del buon death metal; quando una band del genere riesce a infilare un disco che anziché solo buono è semplicemente ottimo, vale la pena di festeggiare e portarselo in spiaggia. Una spiaggia desolata, ovviamente.
Riff granitici, una batteria maniacalmente precisa (inevitabile quando ti porti in studio l’ex-batterista di Necrophagist e Obscura) e un’atmosfera in perfetto equilibrio tra il retaggio degli anni ‘90 e la modernità della fine degli anni ‘10 fanno di Upon Desolate Sands uno degli esempi più ispirati del death metal a stelle e strisce ascoltati in tempi recenti.
DESERTED FEAR – DEAD SHORES RISING (2017)
Dopo due numi tutelari del genere come Lemay e Rutan, è il momento di buttarsi un po’ nel sottobosco. Sebbene i Deserted Fear siano approdati sotto Century Media con Dead Shores Rising, il trio tedesco è sicuramente un nome poco noto al di fuori della cerchia dei deathster più affezionati.
Dead Shores Rising è un mischione di tutto ciò che funziona a livello commerciale nel death metal: un po’ di At The Gates qua, un po’ di Heaven Shall Burn là, un immaginario estetico che furbescamente richiama i primi anni ‘90. Una miscela creata forse più a tavolino che per dare sfogo a esigenze artistiche, ma il risultato è discreto e fa perfettamente al caso di questo listone, perché offre una scusa per abbandonare la riva, preda dei morti viventi evocati dai Deserted Fear, e prendere il largo. L’ascolto non sarà irreprensibile, anzi è sicuramente ruffiano, ma altrettanto divertente.
LUNARSEA – HYDRODYNAMIC WAVE (2006)
Entriamo in acqua con l’unico slot riservato al Bel Paese, occupato da un disco di notevoli chiaroscuri. Come troppo spesso accade da queste parti, i Lunarsea hanno debuttato con il loro power-melodeath di ispirazione nordica appena qualche anno troppo tardi e su un’etichetta troppo sbagliata (la greca e fallitissima Burning Star Records) per poter salire sul carro dei vincitori capitanato dai vari Insomnium e Scar Symmetry, che intanto venivano supportati da Candlelight e Metal Blade, a loro volta alla ricerca dei nuovi Children Of Bodom o Soilwork.
Peccato, perché sotto una produzione evidentemente al risparmio, nel senso proprio di brutta e penalizzante, Hydrodynamic Wave nasconde degli ottimi spunti melodici e una personalità non comune, ed è un rammarico che nonostante la ristampa di qualche anno dopo non abbia goduto almeno di un adeguato aggiustamento di volumi. Per tutti i fan del melodeath anni Zero, quello morbidino e con un sacco di tastiere, il primo album dei Lunarsea è un passaggio più o meno obbligato, tra l’altro arricchito da un piglio fantascientifico in netto anticipo sui tempi.
CENOTAPH – RIDING OUR BLACK OCEANS (1994)
Entrati in acqua, ci lasciamo alle spalle tastiere, sintetizzatori e qualsiasi vago accenno di modernità per cavalcare gli oceani. I Cenotaph sono una delle prime band death messicane, vero e proprio nome di kvlto assieme a Brujeria, The Chasm, Shub Niggurath e pochi (davvero pochi) altri. Rispetto a tutti i loro compagni d’arme, dopo un debutto molto più ruvido e granitico, già nel ‘94 i messicani si erano sbilanciati verso un death svedese melodico quanto lo poteva essere all’epoca, che guardava a Unanimated, Desultory ed Eucharist. Il risultato è un album che ci prova, ma purtroppo arriva fin lì: anche gli sforzi dei Cenotaph, come quelli di troppi altri, sono piagati da una produzione squinternata e piattissima, che non dà volume ai suoni e già un quarto di secolo fa appariva fuori tempo massimo.
Un vero peccato, perché l’umore di Riding Our Black Oceans è puro e genuino, gli spunti melodici ci sono tutti e, in generale, la prova del quintetto è più che buona. Ora che dopo quasi vent’anni di silenzio i Cenotaph sono tornati in attività, una cavalcata sulle correnti del Golfo non si può certo rifiutare.
UNLEASHED – ACROSS THE OPEN SEA (1993)
Dal Golfo del Messico ci lanciamo in mare aperto. Poche band ispirano più tenerezza degli Unleashed: un gazzilione di dischi, una formazione compatta come pochissime se ne ricordano e un’esistenza dovuta solo e soltanto alla cacciata dagli Entombed, di cui il buon Johnny Hedlund si è sempre ritrovato suo malgrado in ombra. E invece il panzuto svedese merita tutto il rispetto possibile: trent’anni esatti di carriera votati al death metal e una vita passata a portare la sua obelixiana figura sui palchi di mezzo mondo.
Across The Open Sea è il terzo album degli Unleashed, l’ultimo dei primi, dopo il quale Hedlund e soci avrebbero iniziato una flessione artistica durata quasi un decennio e definitivamente scacciata con Midvinterblot. Pur rinunciando parzialmente alla freschezza dei primi due grandi classici, il merito di questi trentacinque minuti di musica è di aver definitivamente sdoganato il tema vichingo e storico nel death metal (con diversi anni di anticipo sugli Amon Amarth, per dire). Un album di cui tanti hanno sentito parlare, ma che troppo spesso hanno snobbato.
SULPHUR AEON – SWALLOWED BY THE OCEAN’S TIDE (2013)
E in mare aperto veniamo inghiottiti dalla marea. Senza se e senza ma, la band death metal più interessante del decennio. L’esordio dei Sulphur Aeon è uno degli album più ispirati e profondi (nel vero senso di abissali) che si possano ascoltare. È sempre più raro trovarsi davanti a lavori così elaborati, ma che al tempo stesso non abbiano perso nulla della spontaneità e della furia che da sempre contraddistinguono il genere.
Una passione smodata per Lovecraft e per i suoi demoni e una cura certosina per ogni riff di chitarra sono i due cardini su cui si sviluppa la cifra dei Sulphur Aeon e Swallowed By The Ocean Tide è senza dubbio il loro album più diretto e immediato. Ed è ancora più sorprendente notare come, nonostante la sua immediatezza, a ogni ascolto si riesca a notare un dettaglio o una sfumatura nuova. La dimostrazione che, anche a trent’anni dalla sua nascita, il death metal è in grado di dire cose importanti.
RITUAL NECROMANCY – OATH OF THE ABYSS (2011)
Tornare in superficie è impossibile e andiamo sempre più giù, sempre più a fondo. Ma non si sta poi così male, soprattutto in compagnia dei Ritual Necromancy, che al loro debutto sembravano davvero uscire dal buco del culo del demonio degli oceani. Oath Of The Abyss sente tutto il peso di un gazzilione di chilometri cubi d’acqua sul groppo: batteria, chitarre e urla ammassate le une sopra le altre, un basso introvabile e tanta, tanta, tanta cattiveria. Dopo la classe del disco precedente, il primo album di questi veterani del nordovest è una sbornia di degrado e ferocia.
Negli anni gli americani affineranno il proprio sound (ma non la propria cattiveria), eppure Oath Of The Abyss, a quasi un decennio di distanza, resta un fulgido esempio di cosa si possa arrivare a fare se si è abbastanza incazzati. Nati dalla mente di musicisti iperattivi nella zona di Portland, i Ritual Necromancy sono talmente abietti che a confronto le opprimenti oscurità dell’oceano sembrano un giardino all’inglese dove prendere il tè.
HYPOCRISY – INTO THE ABYSS (2000)
Eccoci arrivati alla meta finale del nostro viaggio vacanza: benvenuti nell’Abisso. Il buon Pietro nei primi dieci anni di attività ci ha dato dentro e Into The Abyss è il settimo album degli Hypocrisy in otto anni. Con dei ritmi del genere non ci si possono aspettare varietà e colpi di genio continui, eppure l’istrionico svedese è riuscito sempre e comunque a distribuire dei colpi di coda di notevole rilievo.
In questo caso l’album si distingue per il sound tipico degli Hypocrisy del periodo di mezzo: tanta melodia, una produzione modernissima e una patina digitale, vagamente posticcia, da suoni ripassati tutti al PC che hanno fatto storcere il naso a molti. In realtà, Tägtgren merita plausi per il suo coraggio, per i suoi tentativi di sperimentazione e, in generale, per essere sempre stato al passo coi tempi e non aver mai reso conto a nessuno (pur avendo cacato fuori dal vaso di quando in quando, ma fa parte del gioco). Into The Abyss è la versione death metal di Animatronic dei Kovenant, con delle hit sparse per scapocciare anche dal fondo della Fossa delle Marianne.
SLAYER – SEASONS IN THE ABYSS (1990)
Sorpresa! Vero: questo non è nel modo più assoluto un album death metal, ma dopo le spiagge, le onde e gli oceani non poteva esserci che l’abisso, e una volta entrati non se ne esce più. E nessuno più degli Slayer ha il diritto acquisito di trattenerci quaggiù. Punto.
Seasons In The Abyss non ha bisogno di essere raccontato, perché arrivare in fondo a questa lista senza conoscerlo è semplicemente impossibile. Ora che siamo giunti sul fondo, e siamo arrivati per restare, non c’è altro da fare che alzare il volume, chiudere gli occhi, guardare nel profondo delle nostre anime e liberare la mente. Per qualsiasi necessità chiedere di Jeff, si è trasferito qui da qualche anno e ci aspettava paziente.
«Close your eyes
Look deep in your soul
Step outside yourself
And let your mind go
Frozen eyes stare deep in your mind as you die»