ARISTOCRAZIA 2009-2019
Per fortuna, lo staff di questa redazione non è così avanti con l’età, per cui festeggiare il traguardo del primo decennio di attività di Aristocrazia Webzine è motivo di grande gioia per tutti noi. Certo, gli anni di una ‘zine si contano un po’ come quelli dei cani e il peso del decennio si sente eccome, ma si va avanti, imperturbabili e volenterosi, trasformandosi ed evolvendosi. Anche se si stava sempre meglio ai tempi della prima demo, sia ben chiaro.
In questo senso, Aristocrazia Webzine è cambiata molto negli anni, sia nei primi cinque che nell’ultimo lustro, con l’avvento di una nuova incarnazione del portale aristocraziawebzine.com in una forma più consona e appropriata a ciò che siamo oggi. Assieme al cambio di aspetto, anche lo staff della redazione, nei mesi, è mutato: alcuni vecchi collaboratori sono ritornati, altri sono andati via; c’è chi si è preso una pausa e chi, invece, è subentrato in pianta stabile. Inoltre nel 2019 E.V., per la prima volta in questi dieci anni di attività, abbiamo mandato in pensione il vecchio sistema dell’aggiornamento settimanale del lunedì, in favore di pubblicazioni giornaliere: un cambio che, statistiche alla mano, sembra apprezziate! In ultimo, siamo approdati anche sulle piattaforme di Instagram e Spotify (canale che ha rimpiazzato SoundCloud) tramite le quali continua la nostra opera di diffusione del male.
Abbiamo investito molto, stiamo investendo tanto — tempo, energie e anche denaro — e continueremo a farlo ancora nel prossimo futuro, ma iniziamo a raccogliere i primi frutti dei nostri sforzi e sacrifici. Abbiamo instaurato, rafforzato e consolidato fruttuosissime collaborazioni con molte etichette, nazionali e internazionali, e uno dei risultati derivanti da ciò è rappresentato dalla folta collezione di interviste che siamo riusciti a raccogliere negli ultimi tempi. Abbiamo iniziato e intensificato la produzione di articoli altri, diversi, che hanno dato inaspettatamente vita a una intera nuova sezione del nostro sito, dedicata alle Monografie, in cui vi si snocciola e analizza da cima a fondo vita, morte e miracoli di personaggi e formazioni che ci hanno segnato. E non finisce qui, perché abbiamo anche altro in serbo per voi. Continuiamo a marciare imperterriti nella stessa direzione intrapresa nel 2009, con la medesima attitudine, restando fedeli ai princìpi espressi all’interno del nostro Manifesto; ciò non significa essere oldscùl a tutti i costi, ma che lo spirito continua ed è lo stesso di sempre, nonostante il nostro essere in costante movimento.
In occasione di questa infaustissima ricorrenza, vogliamo festeggiare il nostro compleanno con ciò che ci piace fare nella vita: raccontarvi un po’ di musica. Nel nostro articolo celebrativo, quindi, troverete alcuni album che hanno visto la luce, come Aristocrazia Webzine, proprio nel 2009, dischi che per noi sono importanti e degni di nota. Oggi come allora, Aristocrazia c’è, esiste, resiste e va avanti, con fisso davanti agli occhi il solo, vecchio obiettivo di sempre: parlare di musica da fan per altri fan.
Ad altri dieci anni di recensioni e di live report, a un altro decennio di interviste, di monografie e di speciali ma, più di ogni altra cosa, di soddisfazioni. Al secondo, aristocratico decennio: che sia altrettanto pieno di gioie e di male. Lunga vita ad Aristocrazia Webzine! E restate sintonizzati, perché i festeggiamenti proseguiranno nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.
Bosj
Ahab – The Divinity Of Oceans
Gli Ahab hanno contribuito allo sdoganamento del funeral doom più di chiunque altro. Il loro debutto del 2006, The Call Of The Wretched Sea, sconvolse più o meno tutti sia a livello musicale che contenutistico; come avviene inevitabilmente per un genere così di nicchia, l’entusiasmo andò scemando e lo sforzo successivo ottenne una risonanza di gran lunga più limitata. Eppure The Divinity Of Oceans è la testimonianza di come il quartetto tedesco sia in grado di rielaborare la propria materia in modo incredibile: dal Moby Dick dell’esordio si passa qui all’evento che ispirò il romanzo di Melville, il naufragio della baleniera Essex, speronata da un capodoglio nel 1820. L’equipaggio, costretto su una scialuppa, passò oltre tre mesi in mare aperto senza provviste e sopravvisse ricorrendo al cannibalismo, in un’odissea ancora peggiore di quella che pochi anni prima aveva coinvolto i superstiti della Medusa, ritratti in copertina nel capolavoro di Géricault. In una continua discesa verso l’abisso, gli Ahab raccontano una tragedia e i suoi orrori con la gravità e la classe che solo i grandi possono permettersi.
Crypt Of Fear
Absu – Absu
Absu è la conclusione di un periodo di silenzio che perdurava dal precedente Tara, uscito nel 2001. Con questo disco eponimo gli Absu non hanno certo firmato il loro lavoro migliore, come dimostrato dalla tiepida accoglienza all’epoca. Eppure gli elementi che hanno reso la band uno dei nomi più riconoscibili del black-thrash metal americano sono tutti qui: il sentore esoterico che permea la musica, il black metal ad alto tasso tecnico e il gusto per gli arrangiamenti; in questo caso, però, abbiamo un album molto più orientato al thrash rispetto a quanto eravamo stati abituati in passato. Certo, questo è solo un tassello in mezzo alla discografia degli Absu, ma preso di per sé mantiene inalterato il suo fascino occulto.
Dope Fiend
In Tormentata Quiete – Teatroelementale
Tra digressioni di pirandelliana memoria e spunti musicali provenienti da generi anche molto distanti tra loro, nel 2009 i bolognesi In Tormentata Quiete elaborano un concept dedicato al teatro e ai quattro elementi, al cui interno l’Uomo svolge una funzione di coesione: un catalizzatore e, allo stesso tempo, una causa delle tensioni che muovono l’Universo. Muovendosi senza soluzione di continuità a cavallo tra folk, rock, ambient, avant-garde e black metal dalle propensioni sinfoniche, l’allora sestetto emiliano confeziona un’opera che prende la forma di una metafora continua: Teatroelementale è un disco teatrale e visionario, ma anche terribilmente drammatico e corposo. Suggestivi monologhi colmi di pathos si alternano a un variegato calderone musicale, tra le cui pieghe emozionali si coglie il bagliore di una semplice verità: troppo spesso rinunciamo alla Vita, indossiamo le consuete centomila maschere e riduciamo al silenzio la nostra interiorità, solo per permettere alle convenzioni sociali di incatenarci, di rimpicciolirci nella mediocrità e di fare di noi degli inoffensivi involucri vuoti.
Elisunn
Insomnium – Across The Dark
Ormai lo sappiamo: quando si tratta di melodic death metal striato di elementi più doom, cupi e malinconici, la gente del Nord Europa riesce decisamente bene. L’esperienza insegna che non sempre questo si traduce con qualità costante o proposte particolarmente interessanti, ma per fortuna i finlandesi Insomnium hanno sempre saputo emergere da quella massa, a volte indistinta, di tristezza e disagio che ormai associamo a quelle buie e fredde terre. Nel 2009 la band pubblicava il suo quarto lavoro, Across The Dark, una gemma concentrata in sole otto tracce in cui per la prima volta si fa più largo uso di cantato pulito (particolarmente degna di nota “Where The Last Wave Broke”) e tastiere (dietro le quali si cela l’ormai ex Swallow The Sun Aleksi Munter). Il disco è un crescendo costante di emozioni, a cominciare dall’apertura quasi interamente strumentale di “Equivalence” per finire con la massiccia “Weighed Down With Sorrow”, che suona quasi come un requiem. Across The Dark è l’opera che mi ha ufficialmente presentato gli Insomnium, che prima di vedere nel 2010 all’Alpheus di Roma di supporto ai Dark Tranquillity non conoscevo ancora, ed è comparso nella mia vita in un momento in cui non sapevo di averne bisogno.
Es
Amesoeurs – Amesoeurs
Nel 2009 vedeva la luce l’unico album degli Amesoeurs, quattro note anime francesi che resteranno sorelle per più o meno tempo a seconda dei casi: se siete curiosi chiedete a Google, noi vi accenniamo solo che si tratta di gente della cricca d’oltralpe coinvolta in progetti quali Alcest, Les Discrets, Peste Noire e altri, troppo impegnata a non sputtanarsi a vicenda per dare un seguito a questo lavoro. Amesoeurs è una chicca che combina post-punk, black metal, alienazione e disagio socio-industriali con l’ingenuità dei primi vent’anni e la competenza di musicisti già consci delle proprie potenzialità. Impossibile che il quartetto proseguisse unito, ma il loro lascito è rimasto di valore e, avendolo tenuto ben presente nelle nostre orecchie in questi dieci anni, possiamo dire che gode ancora di una splendida, angosciata giovinezza.
Giup
Cobalt – Gin
Scaturita dai sobborghi di Denver, nel cuore degli Stati Uniti centro-occidentali, quella dei Cobalt è un’interpretazione del black metal sui generis, una personalissima versione impregnata di quel malessere di fondo che caratterizza molte uscite della scena americana (anche se non tanto quanto in quel di New Orleans). Gin, il terzo lavoro del duo americano, è dedicato a due figure importanti come Ernest Hemingway e Hunter S. Thompson (autore, tra le varie opere, di Hell’s Angels e Paura e disgusto a Las Vegas). Uscito su Profound Lore Records, è un disco grezzo, ricco di nichilismo, oscurità e sferzate di stampo sludge, una ricetta perfetta per chi ama questo genere di marciume dai connotati poco definiti.
Huldradans
Be’lakor – Stone’s Reach
Operazione nostalgia quella dei Be’lakor, formazione australiana che nel 2009 rilascia, per la gioia di chi è cresciuto a pane e Gothenburg melo-death, il secondo album in studio. Per quanto il rimando alla scuola svedese sia evidente, Stone’s Reach è stato in grado di reinterpretare la formula, riuscendo a far convivere l’introspezione degli Opeth, il riffing incalzante degli In Flames e le atmosfere tipiche di casa Dark Tranquillity. Un album che sembra migliorare con il passare del tempo come il buon vino, caldamente consigliato a chi se lo fosse perso appena uscito. In un momento nel quale i mostri sacri del genere sembrava avessero smarrito la via, i Be’lakor sono riusciti a comporre un’ora di musica ispirata e appagante, regalandoci una delle migliori uscite in ambito death melodico degli ultimi anni.
Kelvan
Rosae Crucis – Fede Potere Vendetta
In perfetta controtendenza quasi anacronistica, gli italianissimi Rosae Crucis hanno dovuto aspettare dodici anni prima di poter pubblicare in versione riarrangiata e migliorata una delle loro demo meglio riuscite. A eccezion fatta per due brani, Fede Potere Vendetta è figlio degli anni ’90, quando l’epic combatteva ancora a testa alta e senza paura. Ecco perché, nella dissonanza della modernità, l’album dei Rosae funge da ricordo malinconico tra cavalcate, ritmiche serrate, testi di sangue, guerra, onore e una serie di citazioni classiche (Conan e Manowar) che rendono l’album una chicca per chi ha sempre voluto ascoltare epic metal nella nostra lingua. E Fede Potere Vendetta non delude né con il repertorio della demo né con le nuove proposte, una delle quali magnificamente basata sul guerriero cimmero da noi tanto amato (“Venarium“). Una sorpresa che, a distanza di dieci anni, continua a regalare momenti esaltanti attraverso una scaletta senza cali di tensione. Honoris atque gloriae.
LordPist
Om – God Is Good
Dopo lo scioglimento dei leggendari Sleep, il bassista Al Cisneros e il batterista Chris Hakius diedero vita agli Om, forse uno dei progetti più particolari usciti dalla torrida California in questi venti anni. La band si è spostata gradualmente dai lidi metal di Variations On A Theme del 2005 fino a un più evidente misticismo, accompagnato da un amore apparentemente inspiegabile per l’iconografia della cristianità ortodossa, a partire dal terzo disco Pilgrimage (2008). Il quarto album God Is Good segnò l’inizio di un nuovo capitolo per Cisneros: fu il primo lavoro uscito per Drag City, nonché il primo con il nuovo batterista Emil Amos e con il tuttofare Robert Aiki Aubrey Lowe alla tastiera. Un viaggio epocale attraverso il deserto, un doom-stoner dalle tinte psichedeliche, tra miraggi, meditazioni e apparizioni. Con God Is Good gli Om gettarono le basi musicali e concettuali per il successivo Advaitic Songs (2012) e ci portarono un po’ più vicini al piano astrale.
M1
Monarque – Ad Nauseam
Il movimento black metal del Québec non gode di fama analoga alla Cascadian Scene o ad altre scene locali, eppure vanta numerose formazioni di assoluto spessore. Accanto a Csejthe, Forteresse, Gris e Sorcier Des Glaces, vanno citati certamente i Monarque. Ad Nauseam (su Sepulchral Productions) è il secondo album del gruppo e rappresenta un ponte fra passato e presente, con brani estratti dal primo demo omonimo uniti a composizioni inedite. Come da tradizione per il métal noir québécois, lo stile proposto è riverente verso il sacro gelo del Nord e si appoggia saldamente sulle radici del genere, restando privo di fronzoli così come di inutili scimmiottamenti. Ogni attimo è in grado di sprigionare un pathos melodico vigoroso, senza rinunciare a un grammo di fierezza. Filone, band e disco assolutamente da non sottovalutare.
Nihal
Alice In Chains – Black Gives Way To Blue
I tratti peculiari degli Alice In Chains sono facilmente riconoscibili: un grunge orecchiabile e uno stile che, sebbene già sentito, fonde magistralmente nuances rock e heavy metal. Black Gives Way To Blue è il primo disco con DuVall, scelto per superare la perdita, personale e artistica, di Layne Staley, e si caratterizza per i tratti malinconici e cupi, abilmente riassunti in “Your Decision”. La scaletta non manca comunque di brani più graffianti (“Check My Brain” o l’apertura “All Secrets Known”) e altri estremamente orecchiabili, anche se a livello tematico non ci si discosta tanto dalla malinconia, dalla tristezza e dalla disperazione alle quali la band ci ha abituato. La grintosa e fruibilissima “Lesson Learned” ci catapulta, invece, verso sonorità differenti rispetto alla precedente “Acid Bubble”, con note inquiete che ci lasciano in tensione per tutta la sua durata. In generale, Black Gives Way To Blue è un album dal minutaggio ancora contenuto, equilibrato e in cui ritroviamo molti tratti degli Alice In Chains di Staley, ma che permette anche di voltare pagina: un onesto compromesso tra quello che sono stati e quello che potrebbero essere.
Oneiros
Cain’s Offering – Gather The Faithful
Uscito in un momento storico non particolarmente entusiasmante per il power metal finlandese, tra lo stallo dei Nightwish, l’uscita di Polaris per gli Stratovarius e le sperimentazioni sinfoniche dei Sonata Arctica, l’album d’esordio dei Cain’s Offering intitolato Gather The Faithful (Frontiers Records) aveva tutte le carte in regola per contendersi il titolo di miglior uscita dell’anno nel suo genere, nella Terra dei Mille Laghi e non solo. Cavalcate incalzanti, duetti chitarra-tastiere, mid-tempo cazzuti, assoli gustosissimi e fitte atmosfere deprimenti dietro ogni angolo, gentilmente offerti dall’ex-Sonata Arctica Jani Liimatainen e soci: un lotto di musicisti legati a Stratovarius (Timo Kotipelto), Sonata Arctica (Mikko Härkin), Wintersun, Norther (Jukka Koskinen) e The Dark Element (Jani Hurula).
VACVVM
IANVA – Italia: Ultimo Atto
C’è il rock, c’è il folk, c’è il grande cantautorato italiano, nel secondo album degli IANVA; c’è la presenza del Vate che aleggia immutata nel frasario austero, arcaico ma anche sanguigno di Mercy; c’è un gruppo che ha trovato la propria dimensione cantando, con toni struggenti e disillusi, lo sgargiante declino dell’Italia nell’arco di tempo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale ai rampanti anni ’90. Eventi storici e fatti di cronaca si mescolano in quelle che sono delle vere e proprie pagine di diario e che per questo risultano così vivide e vicine al nostro sentire popolare. Membri degli Spite Extreme Wing continuano a costituire uno zoccolo importante nella formazione dei Nostri (solo Argento ha smesso il ruolo di chitarrista e canta nel coro di “Bora”), e creano una sorta di continuum con la poetica di una certa frangia del black metal italiano — incarnata dalla sigla B.M.I.A. (Black Metal Invitta Armata) — di cui proprio l’Ala Estrema del Disprezzo è stata alfiera.
Vlakorados
Kanashimi – Romantik Suicide
Nel marasma di uscite di stampo depressive che riempirono la scena black metal mondiale del nuovo millennio, poche realtà emergevano dalla bassa qualità generale che regalò la pessima nomea, ancora oggi presente, a questo sottogenere. Mentre alcuni progetti riuscirono a imboccare la via del successo guadagnandosi una fedele fanbase, altri rimasero pressoché nell’ombra nonostante le buone idee: è il caso dell’allora esordiente Kanashimi, che tra sonorità lo-fi ed eleganti note di pianoforte plasmò la propria sofferenza in una forma sonora raffinata e, al contempo, profondamente nera. Non esente da pecche — legate principalmente alle ingenuità tipiche di un debutto — Romantik Suicide trova la propria forza nel senso di rassegnazione e nella deprimente apatia che trasudano da ogni brano e affliggono lo stato d’animo dell’ascoltatore con una negatività quasi insostenibile.